Interview

Nikla Cingolani intervista Marco Cingolani

NIKLA CINGOLANI. Hai scelto la scultura come linguaggio preferito, tuttavia il tuo lavoro continua in modo coerente anche con incisioni e disegni. La parte grafica è concepita come pre-visione, frutto di un momento preparatorio di ciò che poi vai a realizzare con la materia, oppure è sentita come opera finita?

MARCO CINGOLANI. Faccio fatica a interpretare ogni mia opera come “finita”. Trovo che il mio lavoro sia una continua successione di tentativi nel costruire qualcosa, un’immagine o una visione….mi sta molto a cuore il concetto di “costruzione” (di noi stessi, della nostra persona e della nostra identità).
Ad ogni modo, anche trovando nella tridimensionalità e nella fisicità della scultura la mia massima espressione, credo che il disegno sia una parte molto rilevante in ogni mia opera. Tutto il percorso è caratterizzato da una riflessione sul segno grafico che diventa materia, sul segno come traccia fisica e concreta.
L’approccio con il disegno non è mai preparatorio per un successivo sviluppo tridimensionale, ma è una via che parallelamente segue le stesse finalità della scultura, avviene tutto simultaneamente. Il disegno è più immediato, mantiene una sua freschezza quasi elementare, una sua spontaneità che in alcuni casi riesce a costruire quella visione che tridimensionalmente trova altri sviluppi.
Molto spesso considero le mie opere come delle “sculture grafiche”.
Infatti, se fissate da un unico punto di vista sono puramente disegnate, calibrate ed eteree, ma a volte nella grafica ritrovo quel segno scultoreo, carico di forza, traccia di fisicità e passionalità che nelle opere tridimensionali viene raffreddata, affrontata con più raziocinio, con un diverso respiro.

NC. Dalle sculture create con l’intreccio del filo di ferro, sei passato a forme più complesse evitando di delimitare il contorno di ciò che vuoi rappresentare. Descrivi piuttosto un movimento, una traiettoria di emozioni fisiche e psicologiche. Questo modus operandi rende “pittorica” la tua scultura. Stai cercando la sintesi tra queste due arti? o è più la tensione per una maggior astrazione che proietta in un altrove infinito?

MC. Il concetto di infinito mi ha sempre affascinato molto, sia come punto di convergenza che come punto di partenza. In realtà è questo tendere verso un’idea di infinito, a volte interno e introspettivo, a volte esterno come punto di dissolvenza che modifica il mio modo di concepire la figurazione.
Dunque non si tratta di tendere più o meno verso un’astrazione della forma, non è una questione di rappresentazione, quanto più dichiaratamente di volontà e necessità di partire concretamente dalla fisicità del corpo per arrivare a riflettere su ciò che lo costituisce e lo anima.
Sin dall’inizio ho affrontato il tema dell’autoritratto, i vari elementi nascevano dalla misurazione del mio viso, frammenti estrapolati dalla mia figura e gli ultimi “tentativi di costruzione” sono “strutture” realizzate partendo dal volume interno di calchi del mio corpo. In questa nuova restituzione il corpo non è più circoscritto e descritto ma diventa il campo di azione e di creazione di forze. Sono architetture “interne” che tendono verso un infinito intimo e si disgregano verso l’esterno, sono un insieme di traiettorie che si incrociano, si attraggono e si sostengono.
La figura che a volte emerge non è altro che la linea di congiunzione di questi due infiniti.

NC. Franco Rella nel suo saggio Ai confini del corpo (Garzanti) parla della nostra finitezza a cui non ci arrendiamo. Nel tuo lavoro il corpo, che ha un ruolo centrale, sembra sfidare questa finitezza con l’indeterminatezza della forma nel processo di decostruzione e riconfigurazione spaziale. Infatti la tua ultima ricerca sembra interagire con la metrica architettonica del costruire pur non accettandone il metodo troppo razionale.
Ecco dunque le anomalie prospettiche, gli equilibri precari e il concetto sempre più evidenziato di leggerezza nel dialogo con la luce come elemento immateriale ma decisivo per conferire plasticità alla struttura. Fin dove ti vuoi spingere?

MC. L’aspetto costruttivo è stato sempre un punto nodale del mio percorso artistico. Il processo modulare di creazione dell’opera è fondamentale, è un processo per sovrapposizione e opposizione di elementi che nell’attuarsi riscopre il fine stesso della ricerca.
Il continuo tentativo di trovare nuovi equilibri e il lavoro costante sui legami che costituiscono queste strutture o “architetture” colgono tutto il mio interesse e volgono sempre più verso una fragilità dell’opera. Una fragilità che, piuttosto che spingere verso un continuo senso di precarietà ed instabilità, invita ad un sensibile rispetto di essa, custodendo quell’equilibrio che va in qualche modo accudito ponendoci di fronte alla responsabilità di preservare qualcosa che non ha l’arbitrarietà di esistere ma la necessità di resistere.
Il mio è un lavoro che rischia ogni volta di dissolversi, come si evolverà non riesco ad immaginarlo, per il momento l’intenzione è quella di sfidare il limite.